Lei rimase compiaciuta e appagata, i miei sospetti sulla sua personalità erano fondati.
«L’avevo detto che gli uomini sono tutti uguali». Affermò manifestando un chiaro sentimento di onnipotenza.
«Ramona, Colonnello, sei stata tu a dimostrarmi quanto io non sia propriamente un uomo, non ricordi? Non è al tuo atomico corpo che sono interessato, bensì a quell’altrettanto magnifico Nokia che hai messo in tasca, che è senz’altro meno formoso di te ma potrebbe rivelarsi di gran lunga più utile». La guardavo famelico, muovendo qualche passo verso di lei, la quale piegò il viso verso sinistra e sorrise falsamente mentre Pierre apriva a sua volta la porticina del bunker.
Mi fermai di soppiatto, sbuffando.
«Ascoltami Alesa, tu mi sottovaluti un tantino troppo». Affermò.
«Ho interrotto qualcosa?» Esordì Pierre piazzandosi al centro della stanzetta.
«Sì, un tentativo di approccio con il vostro bel colonnello, ma hai rovinato tutto! E perché mi cambiate nome ogni due minuti, chi è Alesa?» Chiesi spazientito.
«Nonostante la sua posizione, ha ancora voglia di scherzare. Ma dove l’avete trovato questo squilibrato?» Disse Ramona rivolgendosi a Pierre.
«Adesso basta, sembrate due poppanti. Alesa è il diminutivo russo di Aleksèj, ti ci chiamavano alla base quando eri piccolo, tuo padre era mezzo russo e mezzo americano». Spiegò.
«Ora smettete di discutere per favore».
Rimanemmo in silenzio cinque secondi e anche John venne a farmi visita.
Entrò nel container in silenzio con un borsone sportivo nero, e si chiuse la porta alle spalle, Pierre era agitato, Ramona elettrica.
«Ma cosa succede? Come mai siete tutti qui?» Chiesi corrugando le sopracciglia e facendo un passo indietro. Mi insospettii un tantino, avvertivo un’aria strana. Ramona si mise seduta sul letto e accavallò le gambe.
«Devo chiederti di spogliarti, tesoro».
Ad un tratto l’atmosfera era cambiata radicalmente, era come se mi nascondessero qualcosa di brutto, mi sentivo l’agnello che il contadino uccide per Pasqua.
«Pierre, che succede?».
Il cuore iniziò a battermi forte e le mani si scuotevano nelle loro familiari contrazioni involontarie, l’Ufficiale aveva ragione, amavo la vita, non volevo morire.
«Fai come ha detto Ramona, non preoccuparti». Disse Pierre dispiaciuto.
«No, ti prego, farò tutto ciò che mi chiederai ma dimmi cosa dovete farmi, ti supplico. Pierre, dimmi perché siete venuti in tre». Ero teso come una corda di violino.
«Mettiamogli le manette». Suggerì Ramona.
«Non ancora, non è pericoloso, non agitiamolo per favore. Alex nessuno si farà male, levati qualche vestito e rimani calmo». Insistette l’Ufficiale. Non so per quale motivo ma mi sentivo tanto scosso a livello emotivo che mi si lucidarono gli occhi. Forse ero troppo provato, mi guardai intorno e capii che l’ultimo briciolo di fiducia la riponevo in Pierre, senza sapere perché. Mi sfilai la maglietta esponendo la cicatrice al centro dei dorsali, era stata provocata dall’Ufficiale in occasione del nostro primo scontro. Ramona mi osservava con malizia.
«E vai con i pantaloni». Sussurrò ammiccando. Mi voltai e la guardai irritato.
«Ehi, se hai bisogno di qualcosa in particolare basta chiedere». La provocai.
«Uhm, scusa tanto bellezza». Rispose scuotendo una mano e simulando un’espressione preoccupata.
«Alex, non rivolgerti al Colonnello in questi termini» Mi ammonì Pierre.
Misi le mani ai fianchi ed espirai, mi tolsi i pantaloni, i calzini e rimasi in boxer.
«Ecco, contento ora?»
«Non quanto credi tu». Ammise lui.
Si diresse verso il borsone e lo aprì, tirò fuori una scatola nera e la posò sul letto, io lo guardavo mentre la apriva, conteneva una fiala rossa e due siringhe. Un brivido lungo la schiena mi scosse.
«Dio Pierre, dimmi che devi fare. Qualcosa è andato storto e volete uccidermi?» Mi tremava la voce, il viso preoccupato dell’Ufficiale mi terrorizzava.
«Ma quanta paura hai di morire?» Mi rispose con una domanda.
«Ha ventiquattro anni, Pierre, che ti aspetti? Facciamogli l’iniezione e basta, non capisco a cosa servano tutti gli scrupoli che ti fai ogni santa volta». Si intromise Ramona.
«Non devi capire, Colonnello. Sei qui unicamente per eseguire».
Ero contento che Pierre fosse, fra tutti, quello col grado più alto. Per ciò che sapevo, osservando le stelle sulla divisa, doveva equivalere a un Generale Tenente dell’Esercito Americano, ma non conoscevo bene la gerarchia della corporazione spaziale. Ramona non batté ciglio.
«Alex, siediti sul letto». Mi suggerì Pierre.
Mi spostai scosso e mi misi e sedere, in quei giorni ero dimagrito e avevo le gambe stanche poiché non avevo possibilità di fare movimento. Stavo in attesa con la schiena incurvata e il viso segnato.
«Stiamo partendo. Ci dirigiamo a Merritt Island, in Florida, al John F. Kennedy Space Center».
Mi portai le mani alla testa, poi le faci scivolare sopra gli occhi. Dunque era finita. Mi portavano via dal pianeta Terra.
«Perché così presto?» Avevo voglia di piangere, mi sentivo disperato.
«Perché mi hanno ordinato di procedere col trasferimento, mi dispiace».
Cercavo di non piangere, me ne vergognavo ma non riuscivo a trattenermi. Non capivo cosa avessi fatto di male per meritare di trovarmi in mutande di fronte a tre uomini più potenti di me, i quali mi imponevano di rinunciare alla mia libertà. Ramona non rideva più, John era visibilmente toccato e Pierre non riusciva a guardarmi in faccia.
«Devo addormentarti, non posso trasportarti da sveglio, sarà meno rischioso per entrambi e tu ti sveglierai direttamente alla base spaziale».
Mi passai l’avambraccio sotto il naso sostituendolo ad un fazzoletto.
«Non dovevi dirglielo». Insinuò Ramona.
«Lo so, ma a noi non cambierà nulla e lui sarà meno sconvolto al risveglio».
Mi guardavo i piedi e ogni tanto singhiozzavo.
«Sei pronto?» Mi chiese Pierre.
«No, non riesco a pensare». Probabilmente risultavo infantile.
«Allora è meglio che ti addormenti, almeno non dovrai farlo».
«Sì, forse hai ragione».
«Allora procediamo». Sospirò e preparò le siringhe, mi si avvicinò.
«Rilassati e non preoccuparti. La tua incolumità è sotto la responsabilità di diverse forze armate sparse fra i continenti».
«Per ora». Sussurrai.
Respirai e guardai in alto, Pierre mi tastò fra gli addominali con l’indice e il medio, sembrava cercasse il punto giusto, mi guardò negli occhi per un istante ma non ricambiai. Infilò l’ago sotto pelle ed io avvertii una fitta profonda e fastidiosa.
«Adesso mettiti dritto col collo». Disse a voce bassa.
Io guardai dritto di fronte a me ed ebbi un giramento di testa, socchiusi gli occhi perché la luce mi offuscava la vista, eppure era quella di sempre. Pierre passò le dita al lato del collo, poi infilò l’ago per la seconda volta. Emisi un lamento e provai una vertigine terribile e violenta. Sentii la nausea e gli occhi visualizzarono immagini mai viste come se le avessi vissute.
“Déjà-vu”. Pensai con la voce e la pronuncia di Greta.
La spalla di un uomo, la mia spalla, ospitava il nasino di un bambino che piangeva ed ero allo stesso tempo sia l’uomo sia il bambino. Poi mi concentrai sul piccolo che aveva paura e stringeva con la manina la tuta nera di quel signore.
«Fermo Aleksej, ora io e te dormiamo un pochino insieme su questa navicella».
«Mam ma?»
«La mamma deve stare sola per un po’ di tempo, ma presto potrai raccontarle di un bel viaggio». Il liquido si diffondeva attraverso i vasi sanguigni, attraverso il corpicino del bambino spaventato che abbracciava un altro me, adulto e un po’ invecchiato. Tutto si oscurò e mi persi in un mare morbido, caldo e vellutato, la gravità non esisteva più. Credetti che se mai avessimo un anima, quella fosse la prova effettiva della sua esistenza, in quell’istante ero fatto solo di lei, di quell’unità inconsistente e tangibile contemporaneamente.
Lei era l’unico fattore che rappresentasse la mia “non morte”.
Alienato Claudia Crocioni
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